domenica 11 dicembre 2016

Il Gypsy Jazz dei Manomanouche all'ombra del Vesuvio.

Il trio ospite dalla XII edizione del DiVino Jazz Festival.

Non accade spesso di ascoltare alle pendici del Vesuvio un gruppo di musicisti cimentarsi in un genere tanto proto-pop quanto di nicchia come il jazz manouche
L'occasione è arrivata nell'ambito della XII edizione del DiVino Jazz Festival, manifestazione itinerante che si snoda in affascinanti location dislocate nell'area vesuviana.

A salire sul piccolo palco, incastonato sul presbiterio della storica Chiesa di San Francesco d'Assisi di Boscotrecase, sono i Manomanouche nella formazione in Trio composta da Nunzio Barbieri, chitarrista ed arrangiatore, dal mauriziano Jino Touche al contrabbasso e dal chitarrista Luca Enipeo.

Il Jazz Manouche proviene dalla tradizione tzigana dei nomadi Manouches. Secoli di viaggio attraverso l'Eurasia, hanno aggiunto all'originale schema musicale molteplici elementi, da quelli più poveri della tradizione popolare a quelli più nobili della musica colta, che hanno contaminato ed arricchito il virtuosismo chitarristico gitano.
Consolidatosi nei paesi dell'Europa centro-occidentale, trova in Django Reinhardt, chitarrista e compositore belga di origine Manouche, il suo apice stilistico. 

I Manomanouche interpretano al meglio la tradizione musicale del popolo nomade, unendo al fraseggio gypsy gli elementi tipici della melodia italiana, sfruttando a pieno la naturale propensione dello stile alla contaminazione.

I brani eseguiti viaggiano attraverso il più ampio panorama jazzistico, dagli standard di Reinhanrdt, alla fusion, ai più popolari brani della musica nostrana, attraverso un excursus che porta lontano nello spazio e nel tempo.

Il risultato è un'esibizione di estremamente fruibile, colta ed accattivante, tanto sbalorditiva per i virtuosismi vertiginosi dei tre eccellenti strumentisti quanto toccante per la profonda sensibilità espressiva.









giovedì 8 dicembre 2016

L'assassinio di John Lennon: morte di un uomo nascita di un mito.


Trentasei anni fa moriva il più geniale dei Beatles.





New York, 8 dicembre 1980.
Mark David Chapman, dopo giorni di elucubrazioni, aspetta per ore all'ingresso del Dakota Building nell'Upper West Side di Manhattan. La sua pazienza lo premia: John esce dall'atrio nel pomeriggio e Mark ne approfitta per farsi autografare Double Fantasy.


Ma la sua ossessione non si placa. Attende ancora e John rientra accompagnato da Yoko.
Ore 22.52. Cinque spari. 15 minuti di agonia. La morte.

The Killing of John Lennon diretto da Andrew Piddington nel 2006 è forse il film che maglio narra la vicenda. Omettendo volutamente la figura di Lennon, si concentra su quella di Chapman tracciandone un profilo così contorto da non riuscire a dare una spiegazione, neanche lontanamente plausibile, al gesto.


Ma poco importo il motivo. Il tempo dei Beatles è ormai lontano. John ora sa cosa chiedere alla sua musica e cosa lasciare a questo mondo: Give Peace a Chance







venerdì 11 novembre 2016

Leonard, il discepolo, raggiunge il Dio della Canzone.


Addio all'artista canadese.
Hineni, Hineni, i'm ready my Lord sono i versi del suo ultimo album You Want It Darker.





Quanto mai stridenti sembrano oggi i termini morte o, peggio ancora, scomparsa accostati al nome di Cohen.
Leonard Norman Cohen, nato il 21 settembre 1934 nel quartiere Westmount di Montréal, Quebec, ieri sera è nato al cielo.
Da ebreo, la sua anima riposerà sicuramente nello Sheol e comunque gli insegnamenti buddisti lo hanno reso certamente consapevole che la morte è parte imprescindibile del ciclo della vita. Forse sta solo ripetendo un viaggio che ha già fatto o sta intraprendendo un nuovo viaggio accanto alla sua Marianne, che lo ha anticipato di qualche mese.
Quindi, è nato al cielo: è nato al cielo dei grandi artisti, dei grandi pensatori, di quegli uomini e donne che non vivono una volta sola ma millanta volte quante vivono in ognuno di noi.
Artisticamente di lui si sa tutto. Sappiamo che a lui, almeno in parte, dobbiamo il nostro De André. Ma sicuramente sono troppo pochi i titoli che ce lo ricordano (Halleluja, Suzanne, Dance To The End Of Love) e troppi quelli di cui non abbiamo mai sentito parlare. Ma a lui andava bene così. La sua voce era per chi volutamente sceglieva di ascoltarlo, conscio di dover decifrare un messaggio, metabolizzare un pensiero, districare un groviglio di esperienze.
All'amico Dylan è stato di recente conferito, meritatamente, il premio Nobel. E se fosse andato a lui? Entrambi hanno grandi storie alle spalle, esperienze artistiche e personali tanto complicate quanto geniali, ma alle crude asperità del messaggio dylaniano, si contrappone la spirale introspettiva del linguaggio di Cohen, subdolamente tagliente come un foglio di carta.
Ma tutto questo non finisce oggi. Per ora ci sta solo salutando col suo inseparabile Borsalino.
E allora, chapeau Leonard.

Leonard Cohen _ You Want It Darker



martedì 8 novembre 2016

Mike Rubini: la tradizione del futuro.

Il talentuoso sassofonista pugliese, mira in alto tenendo ben saldi i piedi a terra. 

Il panorama jazzistico nostrano, dopo alcuni anni vissuti tra luci ed ombre, si è ormai consolidato sulla scena internazionale grazie ad un discreto numero di musicisti che, a pieno titolo, si sono imposti con carattere sulla scena internazionale.
Emancipandosi dall'appartenenza ad un genere che resta indissolubilmente legato alla radice afro-americana, hanno saputo coniugarlo con il nostro patrimonio artistico musicale, che va dalla radice classica sette-ottocentesca alle contaminazioni etniche mediterranee, passando attraverso la tradizione popolare.
E' giusto ricordare che in realtà non si è trattato di un viaggio di "sola andata": a portare il jazz in Europa sono stati gli stessi musicisti americani. Ma a fare presa non è stata la radice blues nera ma una versione danzereccia di jazz, una ritmica estranea alla nostra tradizione e non lo stile anarchico delle origini. E' Louis Mitchell, batterista di Philadelphia"genio dell'agilità e del rumore", a forgiare, verso la metà degli anni '30, il gusto inglese e francese in fatto di jazz. Solo col tempo i musicisti europei tracceranno un solco tra la musica da ballo, un ibrido richiesto dal pubblico dei locali notturni, e quella forma colta perlopiù imitativa del jazz americano. 
Allo stesso tempo si aprì una riflessione all'interno della comunità jazz d'oltreoceano, principalmente in quella della east-coast, che sentiva la necessità di mettere ordine in uno stile tutt'altro che definito, attingendo al patrimonio classico europeo.  




Lo stesso viaggio lo sta facendo, anche se all'inverso, un giovane sassofonista che, dalla provincia pugliese, si è ritrovato a Perugia per l'Umbria Jazz, passando per New York City.
Lui è Mike Rubini; diploma in sassofono e master alla New School for Jazz and Contemporary Music di Manhattan (NYC).
Di chiara formazione classica, Mike ha uno stile pulito e asciutto, senza digressioni in inutili orpelli. Il suo sax alto ha una voce calda e profonda, un suono morbido e senza sbavature.
Affronta gli standard jazz con il dovuto rispetto, in maniera accademica, ma senza eccedere in tecnicismi.
Ma è nelle composizioni originali che Mike dimostra di saper osare, con un incedere sicuro, senza esitazioni.


Con il suo Extensive Quartet, nato nel 2011, si sta facendo strada calcando la scena di prestigiosi festival, primo fra tutti l'Umbria Jazz dove si è esibito nelle ultime due edizioni.
Oltre Mike, il quartetto comprende Marino Cordasco al piano, Pasquale Gadaleta al contrabbasso e Gianlivio Liberti alla batteria; tutti ottimi musicisti, con una formazione solida alle spalle.
Le loro composizioni sono funzionali alla pratica improvvisativa, la struttura diviene propedeutica alla libertà espressiva; ed è lì che i quattro esprimono al meglio le loro capacità, in equilibrio tra classicismo e modernità, tra tecnica e sperimentazione.

Mike Rubini dovrà consumare ancora tante ance, dovrà lucidare ancora mille volte la campana del suo sax e , magari, come ha fatto qualche suo illustre predecessore, dormirci insieme. Ma con il suo talento e la sua disciplina, nulla sembra essergli precluso.










sabato 5 novembre 2016

Il suono del sesso: esplorazione tantrica di un rapporto carnale.


Quando meno te lo aspetti la tua terra, la tua città, cala l'asso. Senza clamore, lontano dai riflettori, viene fuori. Ed è una bella sorpresa.

Sex On Tape, il progetto musicale di Michele Oliva, di sangue oplontino, si materializza in Sections, uscito il 4/11 per l'etichetta indipendente partenopea Voolcano Harmonix.


Per essere un'opera prima mostra un notevole tasso di maturità: è un lavoro solido, strutturato, con una continuità da concept album
Lose yourself to the sound of sex, perditi nel suono del sesso: questo è l'invito rivolto all'ascoltatore. Ed ecco che la musica guida alla scoperta di quei suoni, di quelle vibrazioni, che si sprigionano dall'unione fisica dei corpi. E' un viaggio tantrico attraverso un rapporto che conserva la sua carnalità, la sua fisicità. Non c'è niente di metafisico: si sentono l'energia, il calore e l'odore del sesso, ma è come vedere se stessi dall'esterno. Non è voyeurismo ma esplorazione.
E' un viaggio lungo una notte: c'è un prima e un dopo, e non è solo sesso. Amore, passione, ansia e desidero si rincorrono e si intrecciano in un vortice di suoni raffinati ma non troppo, graffianti ma mai freddi.


Non è facile (e neanche bello) incasellare il lavoro in un genere, ma quello che più si avvicina è una versione rivisitata e corretta di Trip-Hop tipico della scena britannica di qualche anno fa, di quel famoso Bristol Sound che resiste e muta arricchendosi di un'elettronica mai troppo invasiva.
L'album comprende nove tracce, perlopiù musicali con preziose gemme vocali, tutte composte e mixate da Sex On Tape e masterizzate da Gianni "Blob" Roma. Di rilevo anche il progetto grafico di Francesco "Mopo" Minopoli che racchiude con eleganze e sobrietà il lavoro.

Ascoltate l'amore e non la guerra.



venerdì 28 ottobre 2016

L'arte multicanale di Masha

Qualche giorno fa ho ricevuto un messaggio su Twitter. Niente di nuovo, penserete: i soliti spam o una chat pseudo-porno. E invece no, era di una ragazza tedesca che timidamente promuoveva il sul lavoro.

Oggi la musica arriva anche così, attraverso un cinguettio o con un'immagine postata su Instagram.
La fruizione diventa multisensoriale e multidisciplinare; prima delle note giungono parole ed immagini che rimandano ad altro, in questo caso ad un brano musicale, creando quella cornice spazio-tempo che racchiude e valorizza il messaggio artistico finale.  

L'uso della multicanalità, mutuata dal marketing, consente di raggiungere in maniera autonoma, quindi senza il condizionamento della tradizionale rete di promozione e distribuzione, un'utenza potenziale notevolmente ampia e, allo stesso tempo, consente di ridefinire le coordinate di spazio e tempo, ottimizzandole in virtù del prodotto artistico che si intende veicolare. 

Questa è la strada che sta percorrendo Masha Potempa. Nata a Duisburg nel 1989, cresce tra le miniere della Ruhr e la regione del Basso Reno. Quando non suona la fisarmonica, il pianoforte o la chitarra, mostra la sua vena artistica attraverso l'obiettivo della macchina fotografica.

Nel 2015 ha pubblicato per l'etichetta indipendente Phonector, l'EP Rauchschwalben am Horizont, quattro poesie messe in musica dal tono nostalgico ma illuminate da lampi di luce provenienti da lontano, dalle esperienze fatte all'estero, dalla voglia di sognare. Alla tradizione musicale mitteleuropea e baltica, mescola l'ecletticità e l'audacia della scena berlinese, dove vive e lavora da qualche anno.  

Masha è tra i tanti artisti che hanno invaso la rete, sfruttandone l'estrema fruibilità, ma che rischiano continuamente di esserne risucchiati alla velocità di un clik; l'effetto meteora è così rapido che neanche il peso di contenuti artisticamente rilevanti, riescono a frenarne la corsa.
Ma forse per lei non sarà così. 








mercoledì 26 ottobre 2016

Lucas Debargue: un talento, per ora.


C’è un giovane pianista che sta scalando la vetta dell’olimpo musicale ad una velocità vertiginosa. Si tratta di Lucas Debargue, consacrato, sebbene non vittorioso, al 15° Concorso Internazionale Tchaikovsky, che si tiene a Mosca ogni quattro anni (in pratica i mondiali della musica classica), dove "il suo dono incredibile, la visione artistica e la libertà creativa, hanno impressionato i critici ed il pubblico"
Prova ne è il fatto che, immediatamente dopo il Concorso, firma il suo primo contratto con la Sony Classical per la quale registra un recital dal vivo in occasione del suo debutto.


Nasce a Parigi nel 1990 da una famiglia di "non musicisti". Nel 1999 si stabilisce a Compiègne, a circa 90 chilometri a nord della capitale francese, dove, all’età di 11 anni, inizia lo studio del pianoforte presso la locale scuola di musica. Intorno ai 15 anni, però, Lucas smette di suonare il pianoforte perché frustrato dal non riuscire a trovare un maestro in grado di valorizzare il suo talento. Dopo un paio di anni si ritrova a fare rock con gli amici per il puro gusto di fare musica e niente di più.

Dopo la maturità si iscrive alla facoltà di Arti e Letteratura dell’Università Diderot a Parigi e, inspiegabilmente, per circa tra anni smette completamente di suonare il pianoforte. E’ nel 2010 che, invitato al festival Fête de la Musique a Compiègne, ritorna a sedersi alla tastiera. Viene messo in contatto con la celebre insegnante russa Rena Shereshevskaya che lo segue al Conservatorio di Rueil-Malmaison e poi all'École Normale de Musique “Alfred Cortot” di Parigi, dove si prepara per le grandi competizioni internazionali.

Quindi, è solo nel 2010 che inizia a studiare formalmente pianoforte e, appena quattro anni più tardi, viene ammesso a partecipare al Concorso Tchaikovsky, dove nel 2015 si classifica quarto. Ma il suo talento non passa certo inosservato: "Non c'è stato un pianista straniero che ha suscitato tanto scalpore quanto l'arrivo di Glenn Gould a Mosca, o la vittoria di Van Cliburn al Concorso Tchaikovsky", si legge su The Huffington Post.

Oggi Lucas Debargue è consapevole del proprie capacità, ora che disciplina e concentrazione gli consentono di andare oltre il talento e la naturale espressività musicale. Non considera gli anni trascorsi lontano dal pianoforte uno spreco di tempo né si sente in obbligo di doverli in qualche modo recuperare. Non ha mai cercato il palcoscenico e potrebbe farne a meno domani. A guidarlo è la "voce della natura", come definisce la musica, che gli consente di interpretare i grandi autori un gradino oltre il puro stile accademico.     

Per la Sony Classical ha pubblicato due album: il primo, a marzo di quest’anno, con brani di Scarlatti, Chopin, Liszt e Ravel, il secondo, uscito lo scorso settembre, con brani di Bach, Beethoven e Medtner
Le sue esecuzioni mostrano una notevole padronanza tecnica ed una grande espressività. Colpiscono, in lui l’innata spontaneità e la sfrontatezza quasi presuntuosa nell'eseguire i grandi classici, emblema di un vero talento.



lunedì 24 ottobre 2016

La musica che non c'è: lieder e ballate tra cielo e terra.

In epigrafe all'ultimo libro di Luciano Ligabue si legge:
"Chi prende in mano un violino, o qualunque altro strumento musicale, compie un gesto di speranza che comporta il desiderio di un futuro".
 Questa frase costituisce il punto di snodo del romanzo "La ballata di Adam Henry" dello scrittore britannico Ian McEwan.  
Si tratta della storia di un "quasi diciottenne", gravemente malato, e di una donna, giudice dell'Alta Corte britannica, chiamata a decidere sul suo futuro, in equilibrio sulla sottile linea di demarcazione che separa giustizia e legalità, etica e religione.
Il giovane, a pochi mesi dal compiere il diciottesimo anno di età, è figlio di una coppia di Testimoni di Geova, educato ed indottrinato secondo le più rigide regole religiose. Affetto da una rara forma di leucemia, i medici lo sottopongono ad un protocollo terapeutico che include un'emotrasfusione, che il ragazzo, spalleggiato dai genitori, rifiuta categoricamente, timoroso di mescolare il proprio sangue a quello di altri, pratica esplicitamente vietata, secondo il proprio credo, nella Genesi, nel Levitico e negli Atti.  
Ma il giovane, anche se per pochi mesi ancora, non è maggiorenne, quindi la struttura ospedaliera chiede l'intervento del giudice Fiona Maye, allo scopo di ottenere l'autorizzazione a procedere coercitivamente alla trasfusione. 
La vita di lei è segnata dall'ideale mancato di una carriera da pianista; ogni rumore, ogni suono, ogni richiamo le portano alla mente brani, eventi, autori in cui trovare rifugio dalle sofferenze altrui e personali su cui è obbligata a decidere nel suo ruolo di rappresentante della legge e di moglie in crisi.
In una stanza d'ospedale, attratta da un archetto, Fiona ottiene dal giovane una dimostrazione dei suoi progressi di neofita del violino, prima solo ed incerto, poi, rassicurato dalla voce di lei, sicuro e spigliato. 
Eseguono insieme il canto tradizionale irlandese basato sulla poesia di William Yeats "Nel Bosco dei Salici":
"Incontrai sulla riva del fiume il mio amore che, lieve, sulla spalla mia stanca appoggiò la sua mano di neve. Come l'erba è la vita, prendila come viene; ma ero giovane e sciocco e ora il pianto è il mio unico bene". 
L'opera è un continuo richiamo a riferimenti musicali, citazioni, titoli ed autori, classici e jazz che costituiscono una sound track immaginaria che si incastona perfettamente nella narrazione, che da corpo e spessore ai personaggi, che ne traccia il profilo psicologico e li mette e nudo. 

Le aree di Bach, i lieder di Schubert, Jarrett e Monk, Les nuits d'été di Berlioz, Ich bin der Welt abhanden gekommen di Mahler sono l'essenza intima del giudice Fiona Maye, di suo marito accademico, del giovane Adam.

Ma, soprattutto, cristallizzano ogni gesto, ogni parola, ogni pensiero essenziale per districarsi nelle vicende giuridico-sentimentali dei personaggi. Senza questo immaginifico sottofondo musicale, il testo risulterebbe mancante della necessaria profondità, quasi superficiale nel tratteggiare le figure. Riportare continuamente alla mente brani, generi ed autori, contribuisce a dare corpo all'opera, a renderla completa, coinvolgente ed in qualche modo multisensoriale.
  
    

  

venerdì 21 ottobre 2016

La pavana di Kuhn

Mi è capitato di ascoltare, pochi giorni fa, una versione jazz del brano composto da Cajkovskij per musicare il "Lago dei Cigni", celeberrimo balletto della seconda metà del diciannovesimo secolo.
Ad eseguirla era il pianista Steve Kuhn in Trio con il bassista David Finck ed il batterista Billy Drummond.
Kuhn, newyorchese del 1938, vanta nel suo palarès la militanza, nel 1960, nel John Coltrane Quartet
Il brano è tratto dall'album Pavane For a Dead Princess, pubblicato per la Venus Records nel 2006.
E' facile intuire che si tratta della rilettura in chiave jazz di alcuni noti titoli del repertorio classico.
Ne risulta un lavoro estremamente sofisticato, mai eccessivo, assolutamente non retorico, elegante e delicato all'ascolto.


giovedì 20 ottobre 2016

L'affaire Dylan

Prendiamo Dylan, per esempio.
Com'è arrivato a noi e com'è arrivato a meritarsi, o meno, il premio Nobel per la Letteratura?
Viene da un periodo in cui non c'erano facebook o twitter, non c'erano internet, youtube o spotify.
E allora com'è arrivato alle nostre orecchie e al nostro cuore?
Come abbiamo imparato a fruire della sua arte e dell'arte di tutti quelli vissuti in era pre-media?


In quegli anni, all'inizio della seconda metà del secolo scorso, chi iniziava a fare musica non lo faceva per ottenere like e visualizzazioni (almeno non proprio tutti), ma perché, in varie forme e stili, aveva qualcosa da dire, aveva voglia di esprimere la propria opinione. I "canali" erano pochi e bisognava accontentarsi della cantina, del locale di provincia e, da "grandi", della radio locale.
Con questi mezzi per arrivare lontano dovevi avere necessariamente qualcosa di buono da dire o da far sentire.
Quindi, dopo oltre mezzo secolo di carriera, cosa e come è arrivato a noi di Bob Dylan?
E' arrivato il messaggio, l'idea, il pensiero di cui lui e la sua arte, si sono fatti latore. Questo non fa di lui un letterato come non fa di lui un musicista, ma, semplicemente, un artista.
O meglio: egli stesso è ARTE.
E in quanto arte non potrà mai rispondere al telefono.
   

mercoledì 19 ottobre 2016

PERCHE'?

Quanta musica ci circonda, quanta ne ascoltiamo, quanta ne scegliamo e quanta ne subiamo.
Non ne possiamo fare a meno ma, a volte, ci infastidisce, quasi ci aggredisce.
Ci raggiunge dappertutto, anche quando potremmo o vorremmo evitarlo.
La amiamo perché ci aiuta a pensare o, volendo, a non pensare.
I canali attraverso i quali giunge alle nostre orecchie, al nostro cuore, alla nostra pancia, sono infiniti, anche contro la nostra volontà o nonostante la nostra volontà di discernimento.

Quindi, PERCHE'?
Perché la amiamo?
Perché la ascoltiamo?
Perché non possiamo farne a meno? 


Proviamo a capire da dove arriva e dove finisce.