venerdì 6 dicembre 2019

Fermo immagine a servizio della scienza.


Batteri allevati su... pellicola: ecco cosa ha inventato un biologo



Osservare il mondo attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica ci fa scoprire un mare magnum di novità. L’attenzione per i particolari, la scelta dei colori, l’intensità della luce ci abituano a vedere le cose sotto un’infinità di punti di vista mai esplorati prima. È la grandezza della fotografia che ci costringe ad aprire gli occhi anche su ciò che non avremmo mai voluto vedere. Guardare attraverso l’obiettivo è una continua scoperta: è la ricerca del particolare, di qualcosa che sembrava non esserci ed invece è l’elemento più importante.

“Se le vostre foto non sono abbastanza buone, non siete abbastanza vicino” diceva Robert Capa. E c’è una fotografia che più di tutte si è avvicinata al proprio soggetto, ed è la “Fotografia Scientifica” che nel tempo è diventata strumento indispensabile per la ricerca. Già alla fine del XIX secolo, la Stereoscopia consentì un uso scientifico della ripresa fotografica. Tale “tecnica” consisteva nello scattare due istantanee di uno stesso oggetto con due diverse macchine fotografiche a destra ed a sinistra dello stesso. Le due foto, osservate rispettivamente dall’occhio destro e da quello sinistro, restituivano all’osservatore una sorta di tridimensionalità, in cui erano più evidenti profondità e rilievo. Quasi negli stessi anni sir Henry Solomon Wellcome, figlio di pionieri del Nuovo Continente (era originario del Wisconsin), si stabilì in Inghilterra per avviare un colosso della farmaceutica e della ricerca scientifica, collezionando un’innumerevole quantità di immagini ed illustrazioni scientifiche.

La Stereoscopia non riscosse un grande successo neanche a seguito dell’introduzione delle lenti polarizzanti di E. Land, che pure nel tempo sono state ampiamente utilizzate. Un’altra tecnica invece andò incontro ad un sempre più largo impiego ed è quella della Stereofotogrammetria che consiste nella sovrapposizione di immagini scattate da diverse fotocamere posizionate dall’alto e da diverse angolazioni rispetto all’oggetto da riprendere. Si tratta di una tecnica che ha consentito, tra l’altro, l’esatta misurazione dell’altezza delle montagne. Le tecnologie digitali hanno senza dubbio facilitato il compito dei ricercatori, ma questi esempi mostrano quanto sia forte il legame tra ricerca scientifica e fotografia. 

Ma c’è anche chi ha fatto il percorso inverso! Qualche anno fa un biologo coreano appassionato di fotografia, Seung-Hwan OHha pensato bene di coltivare delle colonie di batteri direttamente sulla pellicola fotografica. Il risultato è che le figure ritratte vengono in breve tempo cannibalizzate dai batteri che ne deturpano i lineamenti fino a sfigurarli e poi a distruggere la figura ed il relativo supporto. Il tutto viene “cristallizzato” in una serie di immagini digitali che bloccano il processo.Il concetto espresso dal biologo-artista è quello buddista della “eterna permeanza” che sottolinea l’inesorabile trasformazione di ogni cosa, incluso la fotografia che racchiude in sé la rappresentazione iconografica di un determinato istante.

Nelle teorie di Semir Zeki il legame tra produzione artistica e processi cerebrali si concretizza nella Neuroestetica. Il neurofisiologo mette in relazione i processi creativi con specifiche reazioni biologiche fino a considerare l’arte una vera è propria espressione del cervello. Nelle scelte che precedono lo scatto fotografico, è il sistema limbico del cervello ad essere maggiormente coinvolto, mentre la neurocorteccia appare meno attiva.

La Neurobiologia ci aiuta quindi a comprendere le reazioni del nostro cervello in presenza di qualsiasi forma artistica in grado di generare piacere estetico. Resta da capire quanto di tutto questo ci tornerà alla mente nel momento di... scattare la prossima foto!!

(comparso sul numero di novembre/dicembre 2019 de "Il Giornale dei Biologi")