venerdì 6 dicembre 2019

Fermo immagine a servizio della scienza.


Batteri allevati su... pellicola: ecco cosa ha inventato un biologo



Osservare il mondo attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica ci fa scoprire un mare magnum di novità. L’attenzione per i particolari, la scelta dei colori, l’intensità della luce ci abituano a vedere le cose sotto un’infinità di punti di vista mai esplorati prima. È la grandezza della fotografia che ci costringe ad aprire gli occhi anche su ciò che non avremmo mai voluto vedere. Guardare attraverso l’obiettivo è una continua scoperta: è la ricerca del particolare, di qualcosa che sembrava non esserci ed invece è l’elemento più importante.

“Se le vostre foto non sono abbastanza buone, non siete abbastanza vicino” diceva Robert Capa. E c’è una fotografia che più di tutte si è avvicinata al proprio soggetto, ed è la “Fotografia Scientifica” che nel tempo è diventata strumento indispensabile per la ricerca. Già alla fine del XIX secolo, la Stereoscopia consentì un uso scientifico della ripresa fotografica. Tale “tecnica” consisteva nello scattare due istantanee di uno stesso oggetto con due diverse macchine fotografiche a destra ed a sinistra dello stesso. Le due foto, osservate rispettivamente dall’occhio destro e da quello sinistro, restituivano all’osservatore una sorta di tridimensionalità, in cui erano più evidenti profondità e rilievo. Quasi negli stessi anni sir Henry Solomon Wellcome, figlio di pionieri del Nuovo Continente (era originario del Wisconsin), si stabilì in Inghilterra per avviare un colosso della farmaceutica e della ricerca scientifica, collezionando un’innumerevole quantità di immagini ed illustrazioni scientifiche.

La Stereoscopia non riscosse un grande successo neanche a seguito dell’introduzione delle lenti polarizzanti di E. Land, che pure nel tempo sono state ampiamente utilizzate. Un’altra tecnica invece andò incontro ad un sempre più largo impiego ed è quella della Stereofotogrammetria che consiste nella sovrapposizione di immagini scattate da diverse fotocamere posizionate dall’alto e da diverse angolazioni rispetto all’oggetto da riprendere. Si tratta di una tecnica che ha consentito, tra l’altro, l’esatta misurazione dell’altezza delle montagne. Le tecnologie digitali hanno senza dubbio facilitato il compito dei ricercatori, ma questi esempi mostrano quanto sia forte il legame tra ricerca scientifica e fotografia. 

Ma c’è anche chi ha fatto il percorso inverso! Qualche anno fa un biologo coreano appassionato di fotografia, Seung-Hwan OHha pensato bene di coltivare delle colonie di batteri direttamente sulla pellicola fotografica. Il risultato è che le figure ritratte vengono in breve tempo cannibalizzate dai batteri che ne deturpano i lineamenti fino a sfigurarli e poi a distruggere la figura ed il relativo supporto. Il tutto viene “cristallizzato” in una serie di immagini digitali che bloccano il processo.Il concetto espresso dal biologo-artista è quello buddista della “eterna permeanza” che sottolinea l’inesorabile trasformazione di ogni cosa, incluso la fotografia che racchiude in sé la rappresentazione iconografica di un determinato istante.

Nelle teorie di Semir Zeki il legame tra produzione artistica e processi cerebrali si concretizza nella Neuroestetica. Il neurofisiologo mette in relazione i processi creativi con specifiche reazioni biologiche fino a considerare l’arte una vera è propria espressione del cervello. Nelle scelte che precedono lo scatto fotografico, è il sistema limbico del cervello ad essere maggiormente coinvolto, mentre la neurocorteccia appare meno attiva.

La Neurobiologia ci aiuta quindi a comprendere le reazioni del nostro cervello in presenza di qualsiasi forma artistica in grado di generare piacere estetico. Resta da capire quanto di tutto questo ci tornerà alla mente nel momento di... scattare la prossima foto!!

(comparso sul numero di novembre/dicembre 2019 de "Il Giornale dei Biologi") 

giovedì 14 novembre 2019

Lo spirituale nell'arte: il principio della necessità interiore.


Alla fine del 1911, esattamente nel giorno di Natale, viene pubblicato, dopo una lunga serie di rifiuti, "Lo Spirituale nell'Arte" del pittore russo Wassily Kandinsky. Già da alcuni anni vive stabilmente a Monaco dove, nel 1909, fonda la Nuova Associazione degli Artisti Monacensi. Ed è proprio in quegli anni che Kandinsky inizia a raccogliere, spesso in maniera confusa, i concetti e le teorie che incarnano la pittura astratta. Il libro non è un manuale di tecnica pittorica né un trattato di estetica. E' esso stesso l'astrazione di un modo di vedere l'arte estremamente innovativo, quanto di più lontano possibile dalla rappresentazione naturale. Protagonista dell'opera non è l'arte ma la spiritualità. Kandinsky si interessa della pittura perché è un aspetto dell'arte e si interessa dell'arte perché è un aspetto dello spirito (E. Pontiggia). Egli sostiene che la forma della rappresentazione è del tutto secondaria rispetto all'essenza dell'opera che è la comunicazione di un sentimento. Nel manifesto della Nuova Associazione scrive: "La ricerca di forme che eliminano il secondario per esprimere il necessario, insomma la tendenza alla sintesi, ci sembra la caratteristica che in questo momento unisce un sempre maggior numero di artisti".

Nella citazione de Il Mercante di Venezia, Kandinsky individua il nesso tra musica e pittura astratta. Il suono musicale giunge direttamente all'anima e vi trova subito un'eco perché l'uomo "ha la musica in sé". Nella pittura i due elementi che conducono ad una composizione pittoria puramente astratta sono la forma, che detiene una sua autonomia, ed il colore,  che ha la necessità di essere contenuto. "La scelta di un colore o di una linea, di una parola o di un suono, non dipende dall'arbitrio dell'artista. L'abbandono dell'imitazione verista non comporta una libertà soggettiva assoluta. L'adozione di una certa forma avviane anzi in base ad una legge fondamentale che Kandinsky chiama principio della necessità interiore"(E. Pontiggia).  

Da qui parte il viaggio verso una pura spiritualità dell'arte che nel tempo non ha però raggiunto la sua meta. Gli anni successivi portarono morte e devastazione ed il viaggio di Kandinsky si interrompe bruscamente e la sua teoria si disperde. 

Resta l'idea che la spiritualità proceda tanto lentamente quanto inesorabilmente.     


domenica 10 novembre 2019

La "sesta del cuore"- L'intervallo al top per la produzione di dopamina.

Che la musica sia tra le arti maggiormente evocative, è cosa nota. Costantemente presente nelle nostre giornate, influenza, più o meno scientemente, la percezione del mondo che ci circonda, generando una serie di emozioni, sensazioni, stati d'animo che influenzano il nostro comportamento fino ad indurre il nostro organismo a delle vere e proprie reazioni fisiche.
La risposta del nostro cervello all'ascolto della musica è la produzione di dopamina, il neurotrasmettitore che ci regala un senso di appagamento e benessere. Questo ci aiuta a sopportare meglio la fatica fisica ed a rilassare la nostra mente nei momenti di particolare carico emotivo. 
Non a caso la musicoterapia viene impiegata, con ottimi risultati, per il trattamento delle persone affette da disabilità psicomotorie, da Alzheimer o in patologie neurodegenerative.
C'è un intervallo in musica che in quest'ottica sembra avere un particolare successo: è l'intervallo di sesta definito dal musicologo e semiologo Gino Stefani, "intervallo del cuore" (Musica con coscienza, 1989).
Moltissimi brani famosi, dal tema di Love Story alla Canzone Italiana di Sergio Endrigo, da Buonanotte Fiorellino ai più famosi spot televisivi, contengono un intervallo di sesta e tutti risultano essere particolarmente gradevoli e rassicuranti. È ancora più interessante notare che qualsiasi intervallo di sesta, sia esso maggiore, minore, ascendente o discendente, risulta essere melodioso, cantabile, generatore di dolcezza e tenerezza.
Un'ulteriore particolarità consiste nel fatto che l'intervallo di sesta è considerato "grande", ma senza eccedere, ampio più di quelli "medi" o "giusti" di quarta o quinta, quindi in qualche modo anomalo, difficile da realizzare, impegnativo da cantare. Eppure risulta il più gradevole e melodioso capace si stimolare il cervello a quelle reazioni biochimiche che ci rassicurano come un abbraccio. 

La biosemiotica, che indaga i fenomeni del linguaggio sia in termini culturali che in quelli naturali, magari un giorno chiarirà la rispondenza tra l'intervallo del cuore e le reazioni fisiche del nostro cervello. Nel frattempo godiamocelo tutto. 



(comparso sul numero di ottobre 2019 de "Il Giornale dei Biologi") 


lunedì 26 agosto 2019

Welfare culturale: l’arte di essere comunità.



Con l’espressione “welfare comunitario” si definisce il ruolo degli enti pubblici nell'offerta di servizi alla persona erogati sia da strutture pubbliche che in affidamento ad organizzazioni esterne appartenenti al variegato mondo del “terzo settore”.
Tuttavia tali servizi, non sono in grado di rispondere ai bisogni sempre più complessi delle persone, se non si intersecano ed interagiscono con una rete di risorse fornite dalla comunità territoriale, organizzate in maniera più o meno strutturata.
I servizi erogati dagli enti pubblici, direttamente o attraverso organizzazioni accreditare, possono, ad esempio, prevedere l’assistenza domiciliare o presso strutture adeguate di persone con problemi di salute, di mobilità o anziani non autosufficienti, a cui verrà garantita assistenza sanitaria e farmacologica. 

Ma il processo di affiancamento e di inclusione resterà limitato alla fruizione di tali servizi se ad assi non si affianca la rete di intervento comunitaria costituita dalle risorse e dalle competenze che ogni singolo individuo, ente o associazione naturalmente possiede. Quindi i vicini di casa si renderanno disponibili a dare una mano anche con piccoli gesti quotidiani; un centro polifunzionale consentirà di svolgere attività sportive e ricreative che faciliteranno il processo di inclusione sociale; la parrocchia con i propri volontari offrirà occasioni di incontro e di scambio relazionale organizzando passeggiate che, oltre ad offrire all'assistito la possibilità di vivere una nuova esperienza, darà qualche ora di sollievo alla famiglia; ed infine il territorio consentirà una mobilità senza ostacoli, dei luoghi di ritrovo pubblici, delle strutture che facilitano i rapporti con la pubblica amministrazione.

In questo scenario, le iniziative culturali rappresentano uno dei momenti di maggiore aggregazione a cui partecipare attivamente o come semplici fruitori: i laboratori teatrali, gli incontri di lettura, i corsi di scrittura creativa, cori e gruppi musicali, sale cinematografiche di comunità offrono la possibilità di relazionarsi e far emergere i propri talenti sia come percorso terapeutico che come atti di promozione delle persona, di empowerment, di superamento dell’esclusione e, quindi, di inclusione e partecipazione.

Si realizza così il “welfare culturale” che compie un ulteriore passo in avanti rispetto alla mera erogazione di servizi, con lo scopo di utilizzare tutte le risorse della comunità per promuovere, attraverso la cultura, dei veri percorsi di inclusione e valorizzazione della persona.

Attraverso la cultura si accresce quel capitale sociale che è fatto di relazioni e collaborazioni che migliorano la qualità della vita del singolo e dell’intera comunità.

La cultura è un diritto fondamentale per ogni uomo e le iniziative culturali rappresentano non solo una risposta ad una esigenza individuale, bensì un fabbisogno di tipo collettivo, la necessità di coinvolgere e stimolare alla partecipazione attiva ad eventi di cui beneficerà, direttamente o indirettamente, l’intera comunità.

Gli eventi musicale, forse più di altri, offrono la possibilità di una maggiore fruizione e capillarità per la capacitò di arrivare a chiunque ed in qualsiasi ambiente, stimolando la partecipazione sia passiva che attiva. Ci si può limitare ad ascoltare come semplici fruitori o se ne può prendere parte come produttori; può rappresentare un momento di svago e di alleggerimento in momenti di particolare tensione o divenire uno strumento terapeutico - la musicoterapia - particolarmente efficace nel trattamento di patologie psico-motorie, in pazienti affetti da sindrome di Down o Alzheimer.

Insomma, una comunità competente, in grado di far analizzare le problematiche ed individuare bisogni del proprio territorio, sarà in grado di intessere quelle reti di relazioni che porteranno ad un vero e completo percorso di inclusione sociale. Promuovere eventi culturali che facilitano gli scambi interpersonali, consente di creare una comunità sensibile alle problematiche altrui e maggiormente disponibile all'aiuto, generando un benessere collettivo ed un senso di appartenenza al proprio contesto sociale. 

Giuliano M. Vollaro 



lunedì 24 giugno 2019

Cosa hanno in comune Musica e Fotografia?

Per qualche mese ho partecipato ad un corso di Fotografia Sociale organizzato dal CSV di Napoli. E'stata un'esperienza estremamente interessante sia sotto il profilo professionale che per quello artistico. 

Tralasciando gli aspetti puramente tecnici, mi sono chiesto cosa rende veramente uno scatto fotografico un'opera d'arte o, per lo meno, cosa lo rende interessante, individuabile, nel mare magnum delle immagini circolanti.

Le tecnologia digitali hanno reso la fotografia probabilmente il modo più immediato per esprimete una emozione, un sentimento, per condividere un'esperienza o un evento in tempo reale, senza filtri, con una facilità ed una immediatezza impensabile solo pochi anni fa.

La maggior parte degli attuali dispositivi mobili permette di scattare foto di ottima qualità, sia in "automatico" che in "manuale", grazie ad ottiche eccellenti talvolta prodotte da primari marchi di apparecchi fotografici. Con un minimo di pratica, è possibile ottenere immagini di alta qualità e grandi dimensioni, modificabili e lavorabili in post-produzione.

Parimenti gli apparecchi fotografici digitali, anche di dimensioni ultra-compatte, consentono di scattare con estrema facilità anche in condizioni difficili per luce, movimento ed elementi di disturbo.

Quindi la tecnologia digitale ci ha resi un po' tutti fotografi. Il che non è da considerasi necessariamente un danno né che la quantità vada inevitabilmente a scapito della qualità. Al contrario, la facilità di fruizione ha reso la fotografia la forma di linguaggio più idoneo a trasferire informazioni tanto complesse quanto immediate.

Ma veniamo al punto: cosa rende una fotografia unica ed il suo autore riconoscibile?
Sicuramente non è la perfezione tecnica a renderla tale. E neanche la spettacolarità di quanto ritratto, per quanto unico ed esteticamente piacevole possa essere.
Probabilmente quello che più influenza il nostro giudizio è la "composizione" che arriva alla mente prima che agli occhi. Una buona composizione rende la foto accattivante anche se a prima vista non ne cogliamo i dettagli. Spesso non ce ne rendiamo neanche contro ma l'equilibro tra gli elementi che costituiscono una immagine, catalizza la nostra attenzione ancor prima di distinguere gli elementi raffigurati.



Ma la composizione è il quadro d'insieme, è la cornice che racchiude una serie di elementi che, bilanciati correttamente, fanno si che l'immagine mostri più di quello che lo sguardo coglie, che il significato diventi significante, che la mente arrivi dove gli occhi non possono arrivare. 
         
Ed è qui che musica e fotografia si incontrano. Entrambe si concretizzano in una "composizione" di elementi che solo raramente trovano l'equilibrio perfetto e, come risucchiati in un buco nero, ci conducono nel non-luogo in cui smettiamo di vedere e di ascoltare per esplorare i meandri del non detto, dove i nostri sensi e la nostra ragione non erano mai giunti.

Musica e fotografia nella loro essenza mirano entrambe a mostrare il non mostrato, ad esortarci a mettere dall'altra parte dell'obiettivo o della tastiera, ad utilizzare la mente prima che i sensi.

In questo arduo compito la fotografia deve superare il muro dell'apparenza che ne facilita la fruizione ma rischia di limitare la profondità dei contenuti; per natura eterea, la musica deve scalfire il muro dell'inacessibilità del linguaggio per condurci oltre la raffigurazione del significato.

Ma questa è l'arte e pochi sono coloro i quali si distinguono in quanto artisti.  

lunedì 19 novembre 2018

Sorprese dalla rete.

Navigando, navigando, qualche volta capita di incappare in qualcosa di insolitamente interessante. Di video musicali e non ce ne sono a milioni e pure capita, di tanto in tanto, di ascoltare quello che non ti aspetteresti mai.
Qualche giorno fa mi è captato di ascoltare questa insolita versione di Keep on movin' di Pino Daniele

Il brano lo ricordiamo tutti. L'album è Musicante del lontano '84 ed il testo graffia dentro come solo il vecchio Pino sapeva fare.

Loro sono PMS ovvero Caterina Bianco, violino e voce e Martina Mollo, pianoforte e voce e sembrano aver colto nel profondo il senso del brano riuscendo, con questo arrangiamento asciutto e raffinato, a mostrare qualcosa profondamente intimo che, nella versione originale resta celato.

Buona visione.


domenica 1 luglio 2018

Italian Soulful: la melodia si fa elettronica.

Il progetto discografico di D'Andy & Bodyles rilegge con eleganza alcuni classici della musica pop italiana in chiave dance. 
     
Dico subito che il genere non mi entusiasma e che l'idea di remixare alcuni famosi brani della canzone italiana, tutto sommato non mi sembra il massimo dell'originalità. Ma, come capita non troppo spesso, il risultato supera di gran lunga le aspettative. 
Italian Soulful, uscito da qualche giorno per l'etichetta bolognese Irma Records, affronta con coraggio la sfida di rimettere mano ad alcuni tra i più noti brani della musica leggera italiana, riproponendoli in versione dance. 
Per un'ora d'amore, Pensiero stupendo, Grande figlio di puttana, Che Dio ti benedica, Soul Express ed altri grandi successi nazionali per un totale di undici tracce che ridanno voce ad artisti del calibro di Dalla, Baglioni, Celentano, Matia Bazar, Pino Daniele ed Enzo Avitabile, indietro fino a Bruno Martino con Estate
L'operazione non è per nulla semplice; il rischio di cadere, battuta dopo battuta, in qualcosa di già ascoltato è sempre dietro l'angolo. Di leggero resta senz'altro lo stile morbido, misurato e godereccio, ma per il resto ne risulta un lavoro accurato, sofisticato, mai eccessivo ed estremamente piacevole. 
Va dato atto ai due artisti e producer cresciuti all'ombra del Vesuvio, D'Andy & Bodyles, di essere riusciti abilmente a non cadere mai nel cliché del dejà vu proponendo sonorità raffinate ed effetti curati e mai sopra le righe, con grande rispetto per i brani originali. Notevole anche il contributo delle voci chiamate a reinterpretare i brani ed assolutamente all'altezza del non facile compito.

Buon ascolto. 


ITALIAN SOULFUL - D'ANDY & BODYLES

IRMA Records
         


sabato 21 aprile 2018

I Queen e la retorica del Rock


Dite la verità, sentivate proprio la mancanza di qualcuno che sparasse cazzate su una tra le più leggendarie band rock di sempre, vero?

Correrò questo rischio per fare qualche considerazione su di un gruppo che, ad onor del vero, non rientra nella mia playlist rock preferita ma che non si può che posizionare nell'Olimpo della musica.
Riascoltando i Queen (grazie alla piattaforma che ha ormai abbattuto ogni limite alla provvidenza dell'ascolto musicale) mi è saltata all'orecchio la somiglianza, notevole in alcuni casi, con la teatralità dei primi Genesis, per intenderci quelli di Gabriel. Grande attenzione alla linea armonica, melodie di grande respiro, un'accurata pulizia dei suoni ed una espressività recitativa possibile solo a due camaleonti come Freddie Mercury ed, appunto, Peter Gabriel. Tutto in linea con quel rock britannico coniugato con la purezza di stile diametralmente opposto a quello brutto, sporco e cattivo proveniente d'oltreoceano.
Nel caso dei Genesis questa teatralità, portata ai massimi livelli da Peter Gabriel anche in maniera inaspettata per gli altri componenti della band (come quando salì sul palco indossando l'abito rosso della moglie e la maschera da volpe), muta dopo il 1975 con il cambio di guardia tra Gabriel e Phil Collins e la pubblicazione, nel 1976, di A Trick of the Tail in cui lo stesso Collins registra tutte le tracce audio. Il batterista lascia tutti a bocca aperta anche di fronte ad un microfono e la predominanza scenica del suo predecessore lascia spazio ad una musicalità più raffinata. 
Negli stessi anni (assolutamente d'oro purissimo per il genere) Farrohk Bulsara entra a far parte degli Smile, gruppo costituito da May e Staffell e prodotto dalla Mercury Records. Farrohk, per gli amici Freddie, mutuò il nome dell'etichetta ed inizio a dettare la linea della band imponendo la sua fisicità scenica e le strabilianti doti canore. Fu Staffell a fare un passo in dietro dopo il tiepido successo del primo singolo e così, nel 1970, prende vita il progetto Queen. 
La dicotomia May/Mercury, già evidente nell'album d'esordio, si esplicita in Queen II pubblicato nel 1974: al white side dominato dalla musicalità colta di May, si contrappone la prorompente aggressività vocale di Mercury del black side.
Ed è qui che le storie delle due super band prendono strade diverse. Laddove nei Genesis la vocalità di Collins accetta qualche rinuncia rispetto alla complessità musicale, nei Queen la potenza sonora di Mercury non cede di un decibel. Sia chiaro che in entrambi i casi il valore degli altri componenti delle rispettive band è oversize, assolutamente indiscutibile sia dal punto di vista compositivo che sul piano esecutivo. Ma la teatralità, la capacità interpretativa e la fisicità di Freddy Mercury diventano la cifra connotativa del gruppo. 
Gli anni ottanta e novanta, l'edonismo e la deriva pop, consentono all'ego del cantante di crescere a dismisura, talvolta penalizzando, immeritatamente, i suoi stessi compagni di viaggio.
La teatralità si trasforma quindi in retorica, in quell'autocitazionismo che solo i grandi possono permettersi, ma che ha il limite di non avere limiti, finendo per risultare monotono, se non stucchevole. 
Certo la longevità e la planetarietà dei Queen dimostrano che l'apparire sempre un filo sopra le righe paghi più dell'aplomb britannico dei Genesis, ma è proprio quel filo a fare la differenza tra mito e leggenda.


martedì 17 aprile 2018

La Musicoterapia oltre la musica.

C’è una disciplina scientifica, che in Italia fa ancora molta fatica ad affermarsi ed a trovare un campo di applicazione ampio e consolidato: si tratta della Musicoterapia.

Proviamo a definire cos'è e come si applica la musicoterapia, con l'aiuto di quello che rappresenta il principale testo di riferimento, vale a dire il Manuale di Musicoterapia del prof. Rolando Benenzon, pioniere di questa disciplina.
Dal punto di vista scientifico, la musicoterapia è la disciplina che si occupa dello studio e della ricerca del complesso suono-essere umano con l'obiettivo di ricercare elementi di diagnosi e metodi terapeutici che utilizzano il suono, la musica ed il movimento per provocare effetti regressivi ed aprire canali di comunicazione.
Il termine musicoterapia risulta essere fuorviante e limitativo in quanto, nel processo terapeutico, oltre alla musica, vengono utilizzati anche il suono ed il movimento. La combinazione di questi tre elementi genera un'unica entità che costituisce il fulcro della terapia.
La musicoterapia, insieme ad altre tecniche terapeutiche, collabora con la medicina all'inserimento del paziente nel contesto sociale e nella prevenzione di malattie fisiche e mentali. Ciò la rende a tutti gli effetti una disciplina paramedica. È quindi necessario inserire la musicoterapia, non tanto nell'ambito musicale o in quello della psicologia, quanto in un percorso formativo prettamente medico.
La musica, il suono (non musicale ma inteso nell'accezione più ampia del termine) ed il movimento, sono gli elementi tipici dello stadio primitivo di sviluppo. Quindi la musicoterapia consente la regressione fino al narcisismo primario, fase precedente alla definizione dell’io, attraverso i suoni regressivogenetici (ad esempio il battito cardiaco) ed il complesso non verbale costituito da tutti gli elementi sonori, musicali, il movimento ed i fenomeni acustici, capaci di provocare effetti regressivi.
Questi processi consentono di aprire quei canali di comunicazione con il paziente necessari sia come approccio iniziale della terapia sia come intervento a lungo termine.
La musicoterapia, quindi, non è solo musica o terapia della musica: si tratta piuttosto di un insieme di elementi (dal suono non musicale, ai fenomeni sonori, al movimento) utili sia in fase diagnostica che in fase terapeutica in soggetti con deficit motori e/o cognitivi, in pazienti affetti da Alzheimer o nel trattamento dei disturbi psicotici.

venerdì 22 dicembre 2017

La Musica ...

La Musica è l'Arte che legge nei cuori e li svela nel loro bisogno di serenità e di superamento dei limiti della realtà che ci imprigiona. 
La Musica è l'Arte che ci rivela noi stessi e ci propone agli altri nella loro autentica natura.
Essa è la via che ci conduce nel profondo e sfuggente mondo dei sogni ove ognuno cerca di arrivare per costruirsi una identità senza ferite.
la Musica è l'analisi della Vita che è al di là del tempo e dello spazio come principio unico annunciato del Suono che è la voce dell'Infinito.

Antonio Tommaso Cirillo
Direttore Artistico  

   

mercoledì 25 ottobre 2017

Suonno d’ajere. Piccola intervista a Francesco Guccini.

Dal cassetto a volte escono strane cose di cui un po’ si è orgogliosi, un po’ ci si vergogna.
Era il 2 ottobre 1989 quando, con la sfacciataggine e la presunzione dei ventenni, io ed il mio amico Gigi ci presentammo a casa di Francesco Guccini. L’indirizzo era noto a tutti ed in quegli anni a Bologna tutto era concesso.
Questo è il risultato.              

In via Paolo Fabbri 43, a Bologna, vive un cantautore e, da qualche giorno uno scrittore: Francesco Guccini. Ad accoglierci è Angela, la moglie [in realtà era la compagna, madre della figlia Teresa], che ci dice: “Francesco non è in casa, è uscito a comprare i giornali”. Ma eccolo sbucare dall’angolo della strada col suo fardello di quotidiani e riviste, con uno sguardo che lascia trapelare mille pensieri.
Ci accoglie nel suo studio, o meglio, tra i suoi innumerevoli libri con al centro una scrivania. Francesco è un tipo “alla buona”, a cui piace fare l’alba bevendo vino con gli amici; ha nel sangue le più profonde tradizioni montanare: “Sono stato a Pavana [dove vive attualmente] i primi cinque anni della mia vita, in tempo di guerra, poi sono tornato a Modena; successivamente la mia famiglia ha deciso di spostarsi a Bologna”.
E sono proprio i ricordi di quegli anni e di quei modi di fare, di quelle tradizioni tipiche dei montanari tosco-emiliani, a riempire le pagine del suo primo libro Croniche Epafaniche, edito dalla Feltrinelli. “Ho sempre voluto fare lo scrittore da grande - dice – ho fatto Lettere all’Università perché volevo scrivere e quindi ho scelto una Facoltà che mi desse i mezzi per realizzare questo mio desiderio”.
Il libro è scritto in un italiano farcito da forme dialettali Pavano-Modenesi “con certe espressioni, certi modi di dire, certi ritmi narrativi (…) come se fosse una cosa non tanto scritta quanto raccontata”. E la conferma di questo viscerale amore per le terre dell’appennino tosco-emiliano e per le tradizioni popolari, ci arriva da un Vocabolario Dialettale a cui sta lavorando. Nell’approccio al mondo editoriale “ha fatto gioco il nome, sinceramente, cosa che è un vantaggio ma anche uno svantaggio perché già sto tremando per le bordate che certamente arriveranno. Ne ho letta proprio una, poco fa, di Bertoncelli il quale non si smentisce mai. L’aveva già fatto dicendo che in Stanze di Vita Quotidiana (1974) si vedeva che non avevo niente da dire e che lo avevo fatto perché tiravo alle royalties, che è solo un’operazione economica [a questo episodio dobbiamo L’avvelenata (1976) con cui Guccini a modo suo risponde al giovane critico musicale Riccardo Bertoncelli, che, sulle pagine della rivista Gong, avevo stroncato il suo sesto album]. “Se c’è una cosa che non tollero – continua indignato – è che si metta in discussione la mia buona fede nel fare una cosa”.
Ma sotto quelle vesti di neo-scrittore, batte ancora il cuore di un “incallito” cantautore. La carriera è incominciata un po’ per caso, “facevo canzoni, suonavo, poi sono tornato all’Università, solo che quelli che prima suonavano con me – l’Equipe 84 e i Nomadi – mi hanno chiesto delle canzoni e le hanno eseguite. Probabilmente se non avessi avuto questi agganci, avrei continuato a fare canzoni per un po’, poi non so”.
Forse quello che più gli dà fastidio del suo mestiere è la popolarità: “certo fa piacere essere apprezzato – ammette, ma poi continua -  se uno lo fa con un certo tipo di coscienza una delle maggiori sensazioni che si ha, al di là del piacere, è la vergogna. Essere un personaggio pubblico in un certo modo dà piacere solo all’incosciente”. Lui cerca di essere una persona normale che cerca delle cose ed ha il pudore di se stesso, il pudore di sentirsi guardato.
Ma cosa ha ora nel cassetto Guccini?  “Certamente se le canzoni vengono, ne scriverò della altre; ho già qualche idea e penso, entro il ’90, di fare un disco. Come scrittore sto a vedere se il piacere che mi da questa cosa sarà superiore agli schiaffi che prenderò”.
Comunque vadano le cose, speriamo di vedere presto il nome Francesco Guccini su qualche copertina; che sia di un disco, di un libro o di un vocabolario, poco importa.

Fortunatamente sono passati quasi trent'anni e quel nome lo abbiamo letto su tante altre copertine, ultimamente suprattutto di libri. E' da qualche giorno in libreria Tempo da Elfi, scritto con l'ormai inseparabile Loriano Macchiavelli. Ed a novembre uscirà una raccolta di registrazioni inedite dei  concerti tenuti all'Osteria delle Dame nei primi anni '80, storico locale fondato dallo stesso Guccini insieme a Padre Michele Casale nel 1970.  

Quando hai davanti un mito, te ne accorgi subito. 



domenica 11 dicembre 2016

Il Gypsy Jazz dei Manomanouche all'ombra del Vesuvio.

Il trio ospite dalla XII edizione del DiVino Jazz Festival.

Non accade spesso di ascoltare alle pendici del Vesuvio un gruppo di musicisti cimentarsi in un genere tanto proto-pop quanto di nicchia come il jazz manouche
L'occasione è arrivata nell'ambito della XII edizione del DiVino Jazz Festival, manifestazione itinerante che si snoda in affascinanti location dislocate nell'area vesuviana.

A salire sul piccolo palco, incastonato sul presbiterio della storica Chiesa di San Francesco d'Assisi di Boscotrecase, sono i Manomanouche nella formazione in Trio composta da Nunzio Barbieri, chitarrista ed arrangiatore, dal mauriziano Jino Touche al contrabbasso e dal chitarrista Luca Enipeo.

Il Jazz Manouche proviene dalla tradizione tzigana dei nomadi Manouches. Secoli di viaggio attraverso l'Eurasia, hanno aggiunto all'originale schema musicale molteplici elementi, da quelli più poveri della tradizione popolare a quelli più nobili della musica colta, che hanno contaminato ed arricchito il virtuosismo chitarristico gitano.
Consolidatosi nei paesi dell'Europa centro-occidentale, trova in Django Reinhardt, chitarrista e compositore belga di origine Manouche, il suo apice stilistico. 

I Manomanouche interpretano al meglio la tradizione musicale del popolo nomade, unendo al fraseggio gypsy gli elementi tipici della melodia italiana, sfruttando a pieno la naturale propensione dello stile alla contaminazione.

I brani eseguiti viaggiano attraverso il più ampio panorama jazzistico, dagli standard di Reinhanrdt, alla fusion, ai più popolari brani della musica nostrana, attraverso un excursus che porta lontano nello spazio e nel tempo.

Il risultato è un'esibizione di estremamente fruibile, colta ed accattivante, tanto sbalorditiva per i virtuosismi vertiginosi dei tre eccellenti strumentisti quanto toccante per la profonda sensibilità espressiva.









giovedì 8 dicembre 2016

L'assassinio di John Lennon: morte di un uomo nascita di un mito.


Trentasei anni fa moriva il più geniale dei Beatles.





New York, 8 dicembre 1980.
Mark David Chapman, dopo giorni di elucubrazioni, aspetta per ore all'ingresso del Dakota Building nell'Upper West Side di Manhattan. La sua pazienza lo premia: John esce dall'atrio nel pomeriggio e Mark ne approfitta per farsi autografare Double Fantasy.


Ma la sua ossessione non si placa. Attende ancora e John rientra accompagnato da Yoko.
Ore 22.52. Cinque spari. 15 minuti di agonia. La morte.

The Killing of John Lennon diretto da Andrew Piddington nel 2006 è forse il film che maglio narra la vicenda. Omettendo volutamente la figura di Lennon, si concentra su quella di Chapman tracciandone un profilo così contorto da non riuscire a dare una spiegazione, neanche lontanamente plausibile, al gesto.


Ma poco importo il motivo. Il tempo dei Beatles è ormai lontano. John ora sa cosa chiedere alla sua musica e cosa lasciare a questo mondo: Give Peace a Chance







venerdì 11 novembre 2016

Leonard, il discepolo, raggiunge il Dio della Canzone.


Addio all'artista canadese.
Hineni, Hineni, i'm ready my Lord sono i versi del suo ultimo album You Want It Darker.





Quanto mai stridenti sembrano oggi i termini morte o, peggio ancora, scomparsa accostati al nome di Cohen.
Leonard Norman Cohen, nato il 21 settembre 1934 nel quartiere Westmount di Montréal, Quebec, ieri sera è nato al cielo.
Da ebreo, la sua anima riposerà sicuramente nello Sheol e comunque gli insegnamenti buddisti lo hanno reso certamente consapevole che la morte è parte imprescindibile del ciclo della vita. Forse sta solo ripetendo un viaggio che ha già fatto o sta intraprendendo un nuovo viaggio accanto alla sua Marianne, che lo ha anticipato di qualche mese.
Quindi, è nato al cielo: è nato al cielo dei grandi artisti, dei grandi pensatori, di quegli uomini e donne che non vivono una volta sola ma millanta volte quante vivono in ognuno di noi.
Artisticamente di lui si sa tutto. Sappiamo che a lui, almeno in parte, dobbiamo il nostro De André. Ma sicuramente sono troppo pochi i titoli che ce lo ricordano (Halleluja, Suzanne, Dance To The End Of Love) e troppi quelli di cui non abbiamo mai sentito parlare. Ma a lui andava bene così. La sua voce era per chi volutamente sceglieva di ascoltarlo, conscio di dover decifrare un messaggio, metabolizzare un pensiero, districare un groviglio di esperienze.
All'amico Dylan è stato di recente conferito, meritatamente, il premio Nobel. E se fosse andato a lui? Entrambi hanno grandi storie alle spalle, esperienze artistiche e personali tanto complicate quanto geniali, ma alle crude asperità del messaggio dylaniano, si contrappone la spirale introspettiva del linguaggio di Cohen, subdolamente tagliente come un foglio di carta.
Ma tutto questo non finisce oggi. Per ora ci sta solo salutando col suo inseparabile Borsalino.
E allora, chapeau Leonard.

Leonard Cohen _ You Want It Darker