sabato 21 aprile 2018

I Queen e la retorica del Rock


Dite la verità, sentivate proprio la mancanza di qualcuno che sparasse cazzate su una tra le più leggendarie band rock di sempre, vero?

Correrò questo rischio per fare qualche considerazione su di un gruppo che, ad onor del vero, non rientra nella mia playlist rock preferita ma che non si può che posizionare nell'Olimpo della musica.
Riascoltando i Queen (grazie alla piattaforma che ha ormai abbattuto ogni limite alla provvidenza dell'ascolto musicale) mi è saltata all'orecchio la somiglianza, notevole in alcuni casi, con la teatralità dei primi Genesis, per intenderci quelli di Gabriel. Grande attenzione alla linea armonica, melodie di grande respiro, un'accurata pulizia dei suoni ed una espressività recitativa possibile solo a due camaleonti come Freddie Mercury ed, appunto, Peter Gabriel. Tutto in linea con quel rock britannico coniugato con la purezza di stile diametralmente opposto a quello brutto, sporco e cattivo proveniente d'oltreoceano.
Nel caso dei Genesis questa teatralità, portata ai massimi livelli da Peter Gabriel anche in maniera inaspettata per gli altri componenti della band (come quando salì sul palco indossando l'abito rosso della moglie e la maschera da volpe), muta dopo il 1975 con il cambio di guardia tra Gabriel e Phil Collins e la pubblicazione, nel 1976, di A Trick of the Tail in cui lo stesso Collins registra tutte le tracce audio. Il batterista lascia tutti a bocca aperta anche di fronte ad un microfono e la predominanza scenica del suo predecessore lascia spazio ad una musicalità più raffinata. 
Negli stessi anni (assolutamente d'oro purissimo per il genere) Farrohk Bulsara entra a far parte degli Smile, gruppo costituito da May e Staffell e prodotto dalla Mercury Records. Farrohk, per gli amici Freddie, mutuò il nome dell'etichetta ed inizio a dettare la linea della band imponendo la sua fisicità scenica e le strabilianti doti canore. Fu Staffell a fare un passo in dietro dopo il tiepido successo del primo singolo e così, nel 1970, prende vita il progetto Queen. 
La dicotomia May/Mercury, già evidente nell'album d'esordio, si esplicita in Queen II pubblicato nel 1974: al white side dominato dalla musicalità colta di May, si contrappone la prorompente aggressività vocale di Mercury del black side.
Ed è qui che le storie delle due super band prendono strade diverse. Laddove nei Genesis la vocalità di Collins accetta qualche rinuncia rispetto alla complessità musicale, nei Queen la potenza sonora di Mercury non cede di un decibel. Sia chiaro che in entrambi i casi il valore degli altri componenti delle rispettive band è oversize, assolutamente indiscutibile sia dal punto di vista compositivo che sul piano esecutivo. Ma la teatralità, la capacità interpretativa e la fisicità di Freddy Mercury diventano la cifra connotativa del gruppo. 
Gli anni ottanta e novanta, l'edonismo e la deriva pop, consentono all'ego del cantante di crescere a dismisura, talvolta penalizzando, immeritatamente, i suoi stessi compagni di viaggio.
La teatralità si trasforma quindi in retorica, in quell'autocitazionismo che solo i grandi possono permettersi, ma che ha il limite di non avere limiti, finendo per risultare monotono, se non stucchevole. 
Certo la longevità e la planetarietà dei Queen dimostrano che l'apparire sempre un filo sopra le righe paghi più dell'aplomb britannico dei Genesis, ma è proprio quel filo a fare la differenza tra mito e leggenda.


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